L’ARRIVO DEI CICCIONI.
Deliranti ciccioni mi sovrastano. Li vedo vagheggiare assurdamente sferici, leggeri nell’aria, in ordinata fila indiana sopra la mia testa. Sono come i sassi di Pollicino, tracciano una grassa via nel cielo e ridono come pazzi mentre scorrono fluidi. Non capisco quanti siano, né se siano individui differenti tra loro o sempre gli stessi a tornare indietro, sorpassandomi continuamente in un perpetuo fiume tremolante. Così adiposamente felici ballonzolano e vedo i loro baffetti sottili, curati, appaiati perfettamente ai lati delle bocche unte e sugnose. Le rigide scriminature laterali non si scompongono, capelli nerissimi, scolpiti e lucidati da brillantina d’altri tempi. Ovvietà di gote rosse, avvinazzate, goderecce e ridanciane risplendono su volti senza angolosità. Nereggiano ombreggiandomi, impegnati ad aderire con le pieghe tese delle loro moli prive di gravità agli abiti gessati composti da tre pezzi. Le dita, immonde salsicce ungulate, afferrano giulive fiocchi di nubi che vanno a riempire le fauci divorate da un appetito atavico. Dondolano beati senza sforzarsi di muoversi, stanno follemente a galla nell’aria fredda di fine novembre, spettri isterici e ridanciani. È
un’allucinazione di cravatte pazze a pallini, di scarpe di nappa lucidate a dovere questo ruscello di obesità che, insistente, ripassa a sfiorarmi i capelli. Celiano isterici i palloni, gozzovigliando nel cielo pallido come le loro mani mollicce e le loro fronti ampie e già madide. Ma gli occhi rotondi e sbarrati, dementi, semibianchi, roteanti, sono troppo folli per non essere umani. Appartengono certo a veri ciccioni dalle guance ben rasate, non sono gli occhi di un’allucinazione collettiva. Le voci stridule che si incrociano dissennate per la fame e il giubilo della nuotata celeste potrebbero essere frutto di un’immaginazione malata. Gli orologi a cipolla penzolanti dai panciotti sono forse un’invenzione poco originale di qualcuno che si annoia incatenato alla propria routine. Ma le pupille dilatate, le iridi fisse, non sono certo un problema onirico. I ciccioni stanno lì a volteggiare e la città intera ora li guarda, interrogandosi in silenzio e indicandoli con gesti muti, quasi di rassegnata constatazione. Quelli, senza scomporsi, continuano a riempire l’aria, mangiando nuvole a quattro palmenti, ridacchiando e dandosi di gomito, veleggiando.
È un anziano colonnello in pensione a rompere alla fine il rispettoso stupore della folla, dicendo semplicemente:
- Non sta bene che dei ciccioni galleggino nel nostro cielo.
Ignari, istupiditi, continuano a grasseggiare, ebbri di ossigeno e mai sazi di nutrimento gassoso. Sulla terra si inizia a mormorare, esitando ad attribuire loro un destino ma avanzando proposte sempre meno timide. Si pensa di chiamare l’esercito, la polizia, un prete, la televisione. Quello che il vecchio colonnello ha detto sembra essere universalmente condiviso. Nessuno indugia a lungo sull’irrazionalità dell’evento, ma tutti concordano sulla sua sconvenienza.
Davvero non sta bene quell’azzimata e insieme febbrile processione ondeggiante e il tremolare delle carni silouhettate dallo sfondo perlaceo arriva ad essere indecente, scandito com’è dalle loro risate stentoree. Gli aerostatici omoni gorgogliano, digeriscono oscenamente, si grattano i mostruosi ventri e si rotolano gambe all’aria, scalciando come epilettici neonati, totalmente indifferenti al mondo. La folla si domanda finalmente se ci sia una maniera intelligente per interagire con il pazzo corteo e si decide di chiamare il sindaco: ci pensi lui a sgombrare i cieli della sua città. Arriva attraversato comicamente dalla fascia tricolore un insignificante ometto panciuto dall’aria preoccupata. Megafono alla mano, tra due file di agenti municipali che si sforzano di mantenere un’espressione marziale, il
sindaco prende fiato e, senza riuscire ad evitare il tremore nella voce, intima ai ciccioni di scendere immediatamente. Come rondoni tumorali, gli sferici vagoni del treno adiposo continuano imperterriti a sfiorare le teste degli astanti, emettendo allucinati vagiti e poderosi tuoni dalle pance eternamente vuote.
DUE SETTIMANE DOPO.
La città si scuote lenta dal torpore insonnolito delle coperte calde del mattino. Qualcuno invece si prepara al meritato riposo nel rosa grigiastro del primo sole: è solo questione di ritmi e bioritmi.
Tutti sono comunque già abituati all’ombra pallida che si allarga placida sulla piazza principale: da due settimane sfila ininterrotto il carosello dei ciccioni deliranti. Dopo il vano tentativo del sindaco di sgombrare il cielo dalla curiosa massa, c’erano stati i fumogeni della polizia, i getti d’acqua dei pompieri e i razzi dell’esercito. Addirittura un vecchissimo e consunto prete si era rattrappito nella lamentosa ritualità dell’esorcismo cattolico, ma se i grassoni non sono creature di Dio, certamente non sono nemmeno invenzione diabolica, perché avevano reagito alle parole del sacerdote quanto all’attacco militare: continuando beati il loro banchetto paradisiaco.
Nulla sembra scalfire la pace idiota di quei figuri e così la città decide di conviverci, disturbata certo dalla loro assurdità, ma in fondo troppo occupata dai propri affari per curarsene.
La notizia però si sparge e dalle vicinanze arrivano i primi curiosi, qualche giornalista, moltissimi uomini qualunque che brandiscono smartphone come alabarde. Una sfilata di palloni umani in cielo, se è cosa fastidiosa, è anche cosa fuori dal comune e, ben presto, iniziano a fioccare meme e tormentoni social con protagonisti i famigerati ciccioni.Tra un hashtag e l'altro la sconvenienza dell’obesità aerea si trasforma a colpi di condivisioni in un filone aureo. Signorine e giovanotti griffati vengono sguinzagliati per furiose indagini di mercato, bozzettisti stazionano notte e giorno sotto il pingue torrente, disegnando a ciclo continuo, mentre zelanti e inqualificabili operatori prendono tonnellate di appunti. Scienziati della comunicazione e web designer si uniscono a formare scellerate alleanze che in pochissimo tempo provvedono ad organizzare una monumentale e porcellonica festa d’inaugurazione di una certa multinazionale all’insegna del grasso. Un trionfo di vuotezza rutilante sotto le pance dell’opulenta catena volante. I ciccioni continuano imperterriti nel loro delirio, ma è difficile credere che non siano nemmeno un po’disturbati dalla massa farisea e consumatrice.
Le pance del commercio si direbbero ben più languenti di quelle degli strani personaggi ridanciani e il merchandising adiposo si diffonde come un sugo oleoso in un piatto immacolato. Il fenomeno sorprendente arriva a toccare inconsapevole l’apice della popolarità, quando un’anonima televisione locale, fiutando il denaro sicuro sotto la patina lipidica, decide di mandare in streaming la strana sfilata 24 ore su 24.
Il programma entra in tutte le case dei dintorni e non c’è famiglia che non si sintonizzi almeno una volta al giorno per lobotomizzarsi un po’ davanti a quella sorta di curioso intervallo gorgogliante.
L’insensatezza del fluttuante tablieaux vivant non scandalizza più ormai, anzi: la gente sta
diventando dipendente dai ciccioni. Il circo grottesco di nani e ballerine dello spettacolo si avvicenda senza sosta nel tentativo di comunicare con quei bizzarri palloni di carne: non c'è influencer o divlugatore scientifico da prima serata che non abbia provato a risolverne il mistero. Ma tutto è inutile: i grassi individui si ostinano a sfilare e sfilare, impermeabili alle cose del mondo terreno.
Nel frattempo però la bestia mediatica continua a ruggire, si scrivono instant book, si popolano canali di YouTube e, si vocifera, qualcuno sta lavorando a un soggetto per una serie Netflix sui ciccioni.
La piccola, sonnacchiosa cittadina, viene invasa dai turisti.
Beatamente ignaro di ciò, il nastro di colesterolo celeste scorre e scorre, giorno dopo giorno, riempiendo le casse di molti insieme ai mostruosi stomaci dei suoi componenti.
Li guardo ridere e rotolarsi come il primo giorno, ma, chissà come, mi sembra che la loro isteria si sia fatta meno gioiosa. Deve essere solo una mia impressione.
TRE MESI DOPO.
Fatlandia spalanca i suoi immensi cancelli imbottiti al mondo. A tempo record si è lavorato per poter aprire questo colossale immondezzaio di plastica e cemento il prima possibile. Gli operai hanno festeggiato il Natale nel cantiere e i progettisti hanno trascorso Capodanno sui disegni. Ma finalmente il primo parco divertimenti dedicato ai ciccioni volanti è pronto. Sferici palloni baffuti di tutte le dimensioni coprono il cielo, ma gli originali non se ne lamentano, anche se forse hanno impercettibilmente deviato la loro traiettoria. Turistiche bocche ruminano schifezze caramellate, salate, colorate pazzamente e ingurgitano liquidi zuccherosi, diabetici, che lasciano depositi ripugnanti intorno alle labbra suinesche. Cibi e bevande ballonzolano osceni negli stomaci sballottati dagli ottovolanti e da giostre centrifughe, ovunque si compra, ragazzini pieni fino a scoppiare mangiano e vomitano salsicce e salse.
Il sindaco, quello stesso omuncolo che poche settimane prima avrebbe voluto cacciare i ciccioni, nel tagliare il nastro pronuncia un discorso-leccalecca in cui li ringrazia di aver dato “tutto questo” alla sua città.
Fa un gesto ad abbracciare quel bolo indecente che lo attornia e sbaglia intonazione nel lanciare la battuta che il suo collaboratore gli ha scritto in rosso sul foglio, per farlo sembrare giovane e spiritoso.
Sbaglierò, ma mi pare proprio che gli azzimati obesi abbiano perso un po’del loro millenario
appetito. Di certo i loro volti sono tesi nel sorridere al cielo.
SEI MESI DOPO.
Mi sveglio prestissimo: non mi capita mai. So per certo che è successo qualcosa. Senza fermarmi a pensare, mi precipito in strada, corro verso la piazza. Tutto è fermo, immobile, tiepido. Silenzioso.
Il frastuono ottuso del luna-park riecheggia nella mia mente ma è da parecchio che i suoi avventori sono stati congedati. L’odore bilioso dei suoi fritti se n’è andato nell’aria umida dell’alba. Non c’è brezza sopra la mia testa. Un ubriaco sdraiato nei suoi liquami russa. Cerco di capire cosa manca.
Sopra la mia testa. Di colpo so, e non ho bisogno di guardare.
I ciccioni sono spariti per sempre.
Come arrivarono, se ne sono andati ed è chiarissimo, non torneranno. Lasceranno tutta quella gente nel dubbio eterno: chi sono, perché sono venuti, da dove e perché sono andati. Per sempre se lo chiederanno, illudendosi di saper dare spiegazioni razionali ma inesistenti.
Anch’io ho fantasticato sui ciccioni, non sono diversa. Il fatto che non ci siano più mi permette di poter continuare a pensare che si siano stancati: se ne sono andati, forse scandalizzati dall'indecente rigurgito del capitalismo più becero, oppure, semplicemente, avevano di meglio da fare, altri cieli in cui gorgogliare beati.
Al risveglio la città esploderà in un pianto inconsolabile: sogghigno malevola, evocando fumettistiche suggestioni di soldi andati in fumo. Mi immagino i misteriosi obesi alzare tutti insieme il dito medio ciccioso e salutare con malagrazia quei tetti ipocriti, allontanarsi sberleffando fino a sparire all’orizzonte.
E inizio a ridere. Istericamente prima, poi sempre più follemente, sbarrando gli occhi, rotolandomi, lacrimando, tenendomi la pancia che mi sembra improvvisamente enorme, gonfia come un tendone circense, ma straordinariamente leggera.
Sotto lo sguardo etilico dell’ubriaco, mi innalzo eterea e volo a mezz’aria, liberando una delirante risata, sfilando nel cielo.
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